Operazione “Alpheus 1”. Migliaia di euro al giorno contati sulle dita, così i cugini Lecini si spartivano i proventi dello spaccio

Contavano insieme in macchina i proventi dell’attività di spaccio dello stupefacente come un gruppo di amici che sta raccogliendo i soldi per un regalo e vuole accertare che l’importo sia giusto. Il rumore delle banconote che si sfregano passando da una mano all’altra, accompagnato dalle voci degli spacciatori, o “venditori di morte”, come li ha definiti il Procuratore della Repubblica di Campobasso Nicola D’Angelo, viene rilevato nelle intercettazioni fatte dai Carabinieri del Ros di Campobasso, finite nel fascicolo dell’inchiesta antidroga denominata “Alpheus 1” insieme agli altri elementi raccolti nel corso di due anni di minuziose indagini, supportate da strumenti di qualità e di alta precisione. Dagli appostamenti costanti e le telecamere nascoste i militari hanno rilevato come spesso al centro dell’attività ci fossero i cugini albanesi Xhevahir e Gurim Lecini, di 36 e 29 anni, residenti a Portocannone, entrambi pregiudicati con precedenti per spaccio, già arrestati fra il 2015 e il 2016 in circostanze diverse per essere stati trovati in possesso di ingenti quantità di stupefacente (cocaina e hashish). Per quegli episodi, di cui già stavano scontando una condanna, i due avevano ottenuto un credito dalla giustizia, l’affidamento ai servizi sociali, sfruttato senza remore per proseguire quanto probabilmente avevano lasciato. Migliaia e migliaia di euro al giorno intascati e conteggiati in gruppo, grazie alla vendita dello stupefacente in Basso Molise, cocaina in particolare, importata dall’Albania, ma anche hashish ed eroina erano facile merce da piazzare sul mercato locale. La base di appoggio dello spaccio era un casolare di Portocannone, luogo di ritrovo e di occultamento della droga, spesso interrata, e tenuta “sotto controllo” da un cane da guardia. Anche il campo sportivo era un punto ideale e valido nascondiglio per lo stupefacente, coi movimenti dei pusher documentati dai sofisticati apparecchi degli uomini del Ros appostati a debita distanza. La coca veniva acquistata dai cugini albanesi – anche il loro fornitore, classe ’87, di origini albanesi – ad una quarantina di euro a grammo e ceduta a prezzi che oscillavano fra i 50 e gli 80 euro a grammo, incontri abituali che mostravano la presenza radicata sul territorio, dove il presunto sodalizio – composto secondo gli inquirenti da otto persone, di cui sei finite in carcere martedì mattina e due sottoposte a divieto di dimora in Molise, Abruzzo e Puglia – era punto di riferimento per i consumatori. Il passaggio della droga, secondo gli investigatori, seguiva un assetto di tipo verticistico, con ruoli ben precisi per ogni componente del gruppo. Anche le donne avevano ruoli chiave nell’attività di spaccio, compresa una 39enne di Portocannone, compagna di uno dei due cugini Lecini. In tutto, delle persone raggiunte da misura cautelare, si tratta di cinque albanesi, due romeni e un’italiana. I due presunti promotori e un altro indagato si sono avvalsi della facoltà di non rispondere questa mattina nel corso dell’interrogatorio di garanzia nel carcere di Larino davanti al giudice per rogatoria Rosaria Vecchi (firmataria ordinanze gip Pepe). La difesa, curata dall’avvocato Pietro Sciarretta, contesta l’accusa di associazione a delinquere. “Nell’ordinanza si parla di una vera e propria organizzazione criminale, con ruoli ben precisi per ogni indagato. A nostro avviso è una forzatura, vogliamo studiare l’intero fascicolo, che è abbastanza corposo, per valutare il da farsi”. Intanto è stata presentata al gip un’istanza di revoca della misura cautelare o in subordine di una misura meno afflittiva. Lunedì saranno interrogate nel carcere femminile di Chieti le due donne, una italiana l’altra romena, compagne dei due cugini albanesi.

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