Rinascita e speranza, cammino e cambiamento, per non arrendersi allo spopolamento delle aree interne. Parole e concetti che sono stati approfonditi il 25 giugno 2025, in una sala convegni dell’albergo diffuso Borgotufi a Castel del Giudice (IS) piena, durante l’incontro pubblico che ha visto protagonista l’antropologo Vito Teti. Un’iniziativa, sviluppata nell’ambito del progetto Castel del Giudice Centro di (ri)Generazione – Attrattività Residenziale e Culturale per l’Appennino”, con il quale il Comune molisano ha vinto il Bando Borghi del PNRR, dal titolo “Restare, in movimento. Paesi, persone, senso dei luoghi”, che ha offerto spunti di riflessione profonda su temi che da anni animano il dibattito pubblico: l’abbandono dei territori, le strategie per attrarre nuovi abitanti nelle aree interne e il rapporto complesso tra partire e restare. Un argomento sempre più attuale, di recente portato all’attenzione dal Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che in audizione alla Commissione d’inchiesta sulla transizione demografica, ha osservato che “i fattori demografici influenzano i saldi di finanza pubblica e la stabilità del debito pubblico” e che in merito allo spopolamento “si tratta di un tema che tutta la classe politica ha presente, ma che tende deliberatamente ad accantonare”.
L’antropologia come strumento di cambiamento.
Introdotto dal sindaco di Castel del Giudice Lino Gentile, il quale ha sottolineato come nei piccoli comuni si possano «sperimentare strategie per rigenerare non solo i territori delle aree interne, ma dell’intero Paese», e intervistato da Letizia Bindi, antropologa dell’Università degli Studi del Molise e direttrice del Centro di Ricerca BIOCULT, Vito Teti che da decenni sviluppa una riflessione sulle aree interne e sui “ragionamenti dello stare e dell’andare nei paesi”, ha sottolineato come essere presente a Castel del Giudice rappresenti “una boccata d’ossigeno” in un panorama spesso dominato dal pessimismo. L’antropologo ha ricordato le difficoltà di movimento che caratterizzano questi territori: «La cosa più difficile è viaggiare in queste aree dalla Calabria a qui, in Puglia, in Sicilia. Allora siamo più vicini a Milano, a Torino, a Londra, a Zurigo». Il ricercatore calabrese ha rivendicato il valore di un’antropologia impegnata, che non si limita alla mera osservazione ma vuole “diventare protagonista di cambiamento”. Ricordando le critiche ricevute negli anni Settanta, quando venivano chiamati “gli zampognari” per il loro interesse verso le culture popolari, Teti ha sottolineato come oggi «ci siamo presi una vendetta, perché questi paesi sono pieni di ragazzi che fanno in maniera nuova pittura, arte, teatro, musica, organizzano festival».
Il movimento come essenza dei luoghi.
Centrale nell’intervento di Vito Teti è stata la riflessione sul concetto di movimento, illustrata attraverso un proverbio della madre: “lu ire e lu venire, deu li fice” – l’andare e il venire sono stati fatti da Dio. «Si capiva che per cambiare le cose bisognava andare, camminare, lavorare, lasciare la casa, per tornare e costruirla meglio», ha spiegato l’antropologo, evidenziando come il mondo tradizionale fosse intrinsecamente dinamico. «Il mondo tradizionale era in movimento, in cammino: camminavano i ciucciai, i pastori, i contadini che partivano dall’alba alla sera, i pellegrini che convergevano in un unico centro, che era in montagna, luogo di libertà e di possibilità», ha proseguito Teti, sottolineando un paradosso fondamentale: «forse il futuro non è avanti ma è alle spalle».
Oltre la definizione di “aree interne”.
L’antropologo ha proposto una riflessione critica sulla stessa definizione di “aree interne”, preferendo parlare di “paesi dell’interno”: «L’idea di aree interne è una sottovalutazione della storia di queste aree interne, come se fossero nate interne, con i loro problemi, invece a me piace parlare di paesi dell’interno, con geografia, anima, il mio rapporto con quel luogo». Il camminare assume così una dimensione quasi sacra: «Camminare per ripercorrere il passato, per recuperare la memoria di quello che non c’è più, scoprendo nuove cose, vedendo altri sentieri possibili. Il camminare ha un senso religioso, sacro: abbiamo bisogno di una nuova sacralità».
La “restanza” come scelta consapevole.
Vito Teti ha raccontato di ricevere «centinaia di lettere in cui mi viene detto che la parola restanza ha dato vita a lacerazioni di coloro che sono partiti e vogliono tornare». Tuttavia, ha chiarito che «restare per contare i morti, per lamentarsi, per dire che i paesi stanno morendo, non ha senso se non si prende consapevolezza di quello che si può fare».
Nel dibattito, l’antropologa Letizia Bindi ha evidenziato come spesso l’idea dominante sia quella di irreversibilità, la quale «esclude che non si può cambiare rotta, ma spesso l’autolimitazione dipende dalle comunità che abitano i paesi: “qui non c’è niente, qui non si può fare niente”. Invece è importante ridare ai paesi la convinzione che ci siano opportunità per il territorio e le persone che lo abitano. È fondamentale ripensare la produzione culturale in questi luoghi, per riappropriarsi dei paesi, e ridare forza alla cultura dei paesi. Pensare ad un binomio forte come soluzione: recupero dei saperi del territorio ed esplorazione di nuove forme di economia».
Cultura e economia: un binomio per la rinascita.
Un binomio presente a Castel del Giudice, dove da 20 anni sono in atto politiche di rigenerazione del territorio, con la creazione di nuovi posti di lavoro e progetti di sviluppo sostenibile, ora potenziati dalle iniziative del Centro di (ri)Generazione. «Camminare, andare, richiede fantasia, richiede immaginazione. Il pieno può nascere solo dove c’è il vuoto. E riempire il vuoto di nuovi contenuti, che potrebbero creare una comunità», ha evidenziato Vito Teti.
L’evento di Castel del Giudice ha dimostrato come, anche nei piccoli centri, sia possibile immaginare forme nuove di sviluppo e rinascita, purché si abbandoni «l’atteggiamento pessimistico del non c’è più niente da fare» e si scelga invece di “restare in movimento”, con la consapevolezza che «non è vero che tutto è accaduto. Non è vero che non si può fare».