Strage via D’Amelio, Battista: ‘Da Falcone e Borsellino abbiamo imparato a combattere la mafia’

“Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”. Le parole di Paolo Borsellino facevano eco in un’Italia sorda o che non voleva sentire il grido d’allarme di chi la mafia la indagava e sapeva come combatterla. Combatterla con le armi della giustizia, le uniche in suo possesso, armi che fanno meno male di una lupara, ma che tagliano meglio di qualsiasi lama e che si insinuano nei labirinti di organizzazioni radicate che macinano soldi e che si sbarazzano con facilità di chi osa ostacolare piani e affari criminosi. Borsellino lavorava a capofitto per smontare ogni strategia malavitosa. Era una figura scomoda: era scomodo il suo pensiero, era scomodo il suo sapere come il suo operare. Alle persone che gli erano accanto diceva di sentirsi “un cadavere che cammina” ma credeva nel convincimento del suo collega Giovanni Falcone: “gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Bisognava andare avanti, continuare a scavare. “Giovanni Falcone – diceva Paolo Borsellino – sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio, e senza che nessuno se ne accorgesse”. La strage di Capaci lo aveva scosso ma non fermato, anzi aveva rafforzato le sue convinzioni. L’aria era tesa, irrespirabile, ma era impossibile fermarsi. Dava fastidio Borsellino e appena due mesi dopo quel drammatico 23 maggio del 1992, in via D’Amelio, esplode un’autobomba che non lascia scampo al magistrato e a cinque agenti della scorta: Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Era il pomeriggio del 19 luglio del 1992. Due pesanti ‘avvertimenti’, in meno di 60 giorni, per mettere a tacere definitivamente due uomini legati dallo stesso impegno civile: sconfiggere quella malavita che non era ‘invincibile’. “Due stragi che lacerarono profondamente il nostro Paese – ricorda il sindaco di Campobasso Antonio Battista – ci ritrovammo senza due punti di riferimento, senza due pilastri dell’antimafia che tanto avevano fatto e che tantissimo avrebbero potuto ancora fare per sconfiggere un cancro sempre pronto a mettere in ginocchio l’Italia. Mi chiedevo spesso come sarebbe stato il ‘dopo’, come si sviluppassero le indagini, come si sarebbe evoluto il lavoro dei due magistrati, come le loro inchieste avrebbero continuato a minare il terreno del malaffare, in che modo l’attacco frontale ai boss avrebbe avuto ricadute sui loro sporchi affari. Tante domande, tante incognite ma anche tanta speranza. In questi 26 anni l’Italia è cambiata. Due figure di così alto spessore hanno aiutato a modificare il nostro Paese, ad avvicinarci in modo più diretto alla legalità. Una legalità che è diventata più consapevole e diffusa, soprattutto grazie alla nascita di tante associazioni che operano senza sosta affinché gli insegnamenti lasciati da Falcone e Borsellino rimangano impressi nella nostra mente e ci guidino nel nostro agire. Le loro indagini hanno permesso di avviare processi e di spalancare le porte del carcere a tanti boss, ma credo che l’eredità più preziosa che i due magistrati ci abbiamo lasciato riguarda l’approccio consapevole nei confronti della legge e quella richiesta di giustizia che nessuno potrà sottrarci. Da loro abbiamo imparato a denunciare, a demolire i muri di silenzio, a ragionare di legalità, a pensare che la mafia esiste ma che ognuno di noi può combatterla quotidianamente agendo con trasparenza e responsabilità e inculcando nei giovanissimi quel senso di Stato, quell’educazione all’umanità e alla civiltà che ci aiuteranno a costruire una comunità capace di guardare con fiducia al nostro futuro”.

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